top of page

E Beatrice?
Non è un caso che Beatrice abbia scelto di fare la modella.

​

Beatrice afferma di “essere cresciuta in un ambiente moralistico dove le cose le devi fare per dovere”.
Ad esempio, dice: “Se desidero uscire una sera penso che devo sparecchiare, che devo comportarmi con mamma in un certo modo, altrimenti mamma me la farà pesare”.

​

All’inizio della psicoterapia, Beatrice era succube di questa dinamica: doveva comportarsi secondo gli ordini della madre. Ogni volta che decideva di perseguire un suo desiderio, la madre la faceva sentire in colpa (“Tuo fratello si è addormentato ma tu stavi al telefono col tuo ragazzo”).

​

Afferma: “Anche se nessuno me lo chiede mi sento responsabile per tutta la famiglia. Mia madre mi dice: ‘Quando vieni a casa non devi fare gli occhi da matta!’ Ma io ho sviluppato un’aciditaÌ€ forte! La negazione di me stessa la percepisco come una fonte di malessere. Sto le ore a pensare, e mi aumenta la depressione. Mi sembra di essere tornata a quando avevo 15 anni. Non ho interessi; non leggo. Mio padre vive di una filosofia rassegnata. Ed io ogni sera ci ricasco, e torno a casa priva di ogni iniziativa.”

​

Beatrice si ritrova vittima della logica sacrificale. Non di quella alta, propria dello Spirito, per la quale si rinuncia liberamente a un bene minore per realizzare un bene maggiore. No! Nella logica del sacrificio espiatorio, o “dal basso”, la rinuncia è mossa dal senso di colpa, cioè dal timore della punizione: “Se sto al telefono col mio ragazzo, mia madre mi fa sentire in colpa, distaccandosi emotivamente da me, facendomi sentire responsabile del fatto che non sto con mio fratello piccolo. Io mi sento in colpa: vivo un sentimento di dolore, di tristezza e di mortificazione, e cosiÌ€ inizio ad autoaccusarmi. Inizio ad auto-rimproverarmi; e mi punisco, privandomi dell’uscita con il mio ragazzo, e, piuÌ€ in generale, dei miei desideri, delle mie aspirazioni, dei miei sogni; di fatto, della mia vita”.

​

Con un meccanismo analogo, la nonna Angiolina, puniva inconsapevolmente se stessa non facendo i controlli per il tumore, e, di fatto, scaricando il problema sulle figlie; e ancora, con un meccanismo analogo, Emilia si è autopunita privandosi della possibilità di suonare il violino.
Questo processo di tramandarsi uno specifico modo di pensare, di sentire le cose, di agire, e una peculiare modalità reciproca di entrare in rapporto, viene chiamato trasmissione intergenerazionale dell’attaccamento.

​

Sembra quasi sentir rievocare le parole dell’Esodo (Es 20,5): “Io sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione”; che risuonava come una minaccia agli orecchi degli Ebrei. Se non fosse che il verbo in ebraico non è punire, ma “visitare” (ַקד ְ◌פ paquad), che ha il significato di “visitare”, ma anche di “nominare”, di “chiamare per nome”. Ossia, di rendere comprensibile alla coscienza; di condurre le persone a divenire consapevoli, a dare un nome alle proprie mancanze come condizione necessaria per interrompere la trasmissione intergenerazionale del vizio.

​

Il sacrificio di Emilia non ha nulla a che fare con lo Spirito di Gesù Cristo. Piuttosto è proprio delle imposizioni delle religioni pagane, in cui bisognava offrire delle vittime alla divinità, ad esempio il primogenito, come nel caso del dio Baal al tempo di Abramo ed Isacco, per renderle onore o propiziarla.

​

Ma nel caso di Emilia, il comando non è quello del dio Baal, o del dio Moloch. Piuttosto è quello proprio della legge patriarcale, fondato sulla prevaricazione, sull’intimazione da parte di chi dispone dell’autorità o della forza. Una logica, ripeto, asservita alla necessità di sopravvivere, ma che non esprime certo il livello alto, la rivelazione piena dello Spirito di grazia, e di verità.

​

E’ interessante che all’inizio della psicoterapia, Beatrice non riusciva ad avere un comportamento assertivo nei confronti della madre Emilia. In pratica, non riusciva a farsi valere.
Aveva la tendenza a chiamare la propria assertività col nome (improprio) di “violenza”.

​

Nel suo percorso di psicoterapia, nel suo deserto interiore, Beatrice ha dovuto riconoscere che lei non era solo la ragazza buona, generosa, gentile e servizievole, che per paura o per il senso di colpa rimaneva succube dell’intimazione della legge autoritaria.

​

Il primo passo della psicoterapia consiste sempre nel riconoscere il significato legittimo del proprio “nervosismo”, cioè del proprio fastidio, della propria rabbia. Codificata dal DNA, la rabbia si genera automaticamente nella nostra mente e nostro corpo come segnale di difesa, allo scopo di avvertirci della presenza di una minaccia, cioè di una situazione che sta mettendo in pericolo la nostra integrità morale (la nostra rispettabilità, la nostra dignità, o autostima) o fisica (ad es. essere picchiati); e dunque con il fine di neutralizzare la minaccia, di impedire il perpetrarsi del danno, del trauma.

​

Guidata passo passo a riconoscere la sua rabbia, Beatrice ha iniziato a ragionare in un altro modo: “La rabbia non è per forza un male. Addirittura, a volte l’uso della forza è necessario: ci vuole forza per spaccare la legna; ci vuole forza per partorire; ci vuole forza per fare l’amore (ed in questo processo di trasformazione Beatrice inizia a vincere la sensazione di dolore che aveva durante il rapporto).

​

Imparando a gestire, ed a tratti a sfidare, il proprio senso dei colpa, Beatrice doveva apprendere, con l’esperienza, la capacità di concepire l’esistenza della forza morale. Stava imparando l’assertività, cioè far valere i valori in cui crede, che sono i valori della Vita, nel rispetto di se stessa e del suo prossimo.
Dice: “Mio padre ha bisogno di cure. Cavolo! Questa malattia! Che peso, che fatica, che responsabilità! Mi sento triste per papà. E se gli succede qualcosa di peggio? Io ce la devo fare! Voglio ottenere questo lavoro, questi soldi, per aiutare mio padre, per aiutare la mia famiglia”.

​

Ma intanto il lavoro non gira. Mi racconta Beatrice: “Ho fatto un provino per una sfilata importante. Ma alla fine non mi hanno presa! La loro giustificazione è che sono ‘troppo raffinata’. Ho provato tanta rabbia! Perché so che non è vero! Avrebbe potuto dirmi tutto, ma non questo! Per esempio che la ragazza che hanno preso c’ha 50.000 follower, e che io non sono abbastanza famosa! Mi sento come se fossi stata stuprata! C’ho messo tutta me stessa in questa sfilata!” E mi dicono: “Sei bella! Ma sei troppo raffinata...” “Ma vaffanculo!!! Sono stufa di cambiare per gli altri! Tanto ci sarà sempre una ragione del cazzo per cui non vado bene!”

​

***

​

Per conoscere il sogno di Beatrice sulla sua rabbia, clicca qui

bottom of page